La storia dell’eremo

Venni alla luce il 21 dicembre 1939, da Rossi Giustino e Di Lullo Maria. All’anagrafe mi chiamarono Rinaldo, come il nonno paterno. E sono nato a Tre Confini, a sei chilometri da Torricella Peligna, proprio nella casa dove ora sto scrivendo, diventata sede delle “Case di Maria di Nazareth” il 12 luglio 2007 quando, dopo il restauro durato tre anni, Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti / Vasto, benedisse i locali che da edificio rurale fatiscente era divenuto un piccolo monastero o Eremo delle “Case di Maria di Nazareth”, come lo abbiamo designato in seguito.

La vita non sempre ha un andamento ordinario, come forse capita a molti. La morte del papà in Albania a causa della guerra quando avevo 16 mesi ha inciso fortemente nella mia vita. La mamma vedova a 19 anni, fu convinta a risposarsi. Io rimasi coi nonni paterni. L’orfanezza l’ho avvertita fino ai trent’anni. Ma il tempo, come dice il proverbio, è galantuomo: tutto ripara e riordina. Le elementari fino alla quarta compresa le frequentai a Tre Confini; la quinta invece al paese, andando a piedi.

Terminate le elementari, mia nonna diceva: “Tu sei stato sfortunato, devi andare a studiare; non devi fare la vita che facciamo noi”! Con la mediazione di una ex insegnante del paese, a metà ottobre 1952, con altri tre ragazzi di Torricella, accompagnati da Don Giovanni di Fallascoso, raggiungemmo il Santuario Mariano di Montenero di Livorno, officiato dai Padri Benedettini della Congregazione di Vallombrosa (FI). Lì, in quel seminario minore compii i primi quattro anni delle medie.

Provenivo da un ambiente assai arido culturalmente. Parlavo solo il dialetto. Tra i Toscani mi vergognavo, ma tacendo e ascoltando, timidamente imparai. Tre anni dopo, nell’autunno del 1955, dopo gli esami di terza media, tornai per la prima a volta tra i miei a Torricella. Con generale sorpresa non comprendevo più il dialetto, tanto che qualcuno ebbe a dire: “Dove l’avete mandato questo figlio?”.

Venne a prendermi alla stazione di Palena mio cugino Rinaldo con due biciclette. Era notte, schiarita tenuamente dalla luna. In discesa precedevo. In salita restavo indietro, tanto che egli fu costretto ad afferrare con una sola mano anche il mio manubrio e trascinarmi faticosamente. A un certo punto, però, passò qualcuno in macchina che Rinaldo conosceva. Mi fece lasciare la bicicletta e salire in macchina. Questo signore mi lasciò all’incrocio della strada per Tre Confini. E Rinaldo fece tutta quella strada spingendo due biciclette per vari chilometri e in salita. Quando giungemmo vicino a casa, mi disse: ‘La nonna non c’è più: è mancata in agosto’. Benedetta nonna! Quanto aveva fatto per me!

La vocazione la scoprii in quei primi anni di seminario, soprattutto durante la santa messa. Nell’età matura mi fu piuttosto laborioso accettarla, forse dovuto anche al fatto che i miei compagni, tre di Torricella, quattro di Montenerodomo e qualche altro abruzzese, uno dopo l’altro, se ne andarono tutti. Però alla vocazione sono rimasto sempre fedele, per grazia di Dio, anche contro il mio volere e nonostante le traversie della vita.

Verso la fine del 1956 ci mandarono nell’Abbazia di Vallombrosa, dappoco riavuta dalla Forestale, dove compii gli studi di liceo e filosofia; e lì, il 12 luglio 1958 emisi la prima professione. Per gli studi di teologia invece ho avuto la fortuna di compierli nell’Ateneo di Sant’Anselmo in Roma, proprio durante i quattro anni del Concilio, tra il “62 e il “66. Sono vissuto per lo più nella comunità monastica di Vallombrosa, in particolare dal 1978 al 2004. Nell’Abbazia ho ricoperto diversi ruoli: maestro dei novizi, priore (vice dell’Abate), servizio in foresteria… Negli ultimi anni, prima di uscire, ho fatto parte anche del Consiglio dell’Abate Generale.

Nel 1989, indirizzata dall’allora vescovo di Fiesole, Mons. Luciano Giovannetti,  giunse a Vallombrosa per la direzione spirituale Sorella Lydia Martini, proveniente da Firenze. Mi frequentò per circa un anno. Poi chiese all’Abate di essere accolta come eremita in foresteria. Ottenne il permesso a condizione che avesse cura della foresteria, tenesse il contatto con gli ospiti e nel periodo invernale preparasse la cena per la comunità. Visse da eremita in foresteria per circa 15 anni, senza mai uscire, obbedendo a una sua interiore ispirazione e attuando così anche il concetto di clausura e di stabilità della Regola Benedettina. Partecipava anche a tutta la preghiera della comunità. In tal modo acquisì una reale formazione ed esperienza monastica tanto da richiamare spesso anche me al dovere. Anno dopo anno, si era legata molto alla comunità: ne viveva le gioie e le sofferenze.

Come maestro dei novizi mi affliggeva la mancanza di vocazioni, problema condiviso anche da Sorella Lydia che viveva con entusiasmo la nuova esperienza. Verso il 1995 prendemmo coscienza, certamente per ispirazione divina, di dover realizzare un progetto insieme. Da parte mia mi premuravo di comunicarlo al P. Abate per averne il

permesso, ma egli considerando forse il buon andamento della foresteria dell’Abbazia, di cui eravamo responsabili, ricusava di darmi retta. Questa attesa durò circa 10 anni!

Il rinnovamento teologico e dottrinale del Concilio Vaticano II mi aveva tanto interessato, soprattutto “il ritorno alle fonti” e il carisma dei fondatori e fondatrici (cf Perfectae Caritatis, 2). Mi domandavo come concretizzare quelle prospettive. Mi erano familiari solo le Vite di san Benedetto e di san Giovanni Gualberto, fondatore di Vallombrosa, di cui avevo tradotto la Vita dal latino e di san Benedetto la Regola. Sia io che Sorella Lydia spesso prospettavamo al P. Abate come una urgenza il rinnovamento spirituale, perché a nostro parere non sembrava che la comunità potesse sperare in un futuro prospero. Forse da ingenuo, mi affascinava l’idea che ebbe a suo tempo san Giovanni Gualberto il quale, a causa della simonia, uscì dal monastero di san Miniato al Monte (FI) per ritirarsi nella solitudine di Vallombrosa. Anch’io pensavo a qualcosa del genere.

Per farla breve, facendo io parte del Consiglio dell’Abate Generale e celebrandosi nel giugno 2004 la Dieta Ordinaria della Congregazione di Vallombrosa, al termine dell’ultima sessione, mi feci coraggio e davanti ai Padri della Dieta feci la mia richiesta di uscire di comunità e tentare una nuova fondazione. Con il P. Abate poi mi ero accordato che se alla fine di un anno non fossi riuscito nel progetto, sarei rientrato tranquillamente in monastero.

Sorella Lydia con i suoi sogni e le sue visioni aveva già individuato il luogo dove attuare il disegno: nella casa dove io ero nato, a Tre Confini di Torricella Peligna (CH). Tra l’altro lei sosteneva che in quella casa, ormai diroccata, ci fosse un fiore. Io ci ridevo sopra sapendo che ormai, abbandonata da anni, non poteva che essere ricoperta di rovi e sterpaglie. In seguito scoprii sul lato sinistro della casa, sopra la porta, al centro della volta, che c’era (e c’è) una pietra lavorata a stella.

Nel 2003, un anno prima di uscire, il Signore ci fece conoscere un gruppetto di persone della zona di Pisa, proveniente dal Movimento Catecumenale: due giovani, una ragazza e una coppia di sposi. Mi premurai di dare loro un minimo di conoscenze del mondo monastico. Prima di uscire, li portai a Torricella, perché si rendessero conto di persona del progetto e dell’ambiente che avrebbero trovato. Uno di loro che fungeva da capo, si mostrava piuttosto critico e pungente. Al ritorno gli sentii dire che eravamo stati a “luponia”! Trattandosi di monastero, non fa meraviglia che esso si trovi in zona isolata e il nostro in mezzo a un bosco. Ma non detti peso alla battuta!

Con Sorella Lydia mi ero accordato poi di non partire prima dell’estate per non lasciare smembrata la comunità, incaricati come eravamo del servizio di accoglienza degli ospiti, allora tanto numerosi. Lei partì prima di me il 20 agosto e io una settimana dopo, ospitati a Torricella dal Signor Sindaco Graziano Zacchigna nell’ex Asilo Porreca. Accoglienza festosa della gente che gareggiava per venirci incontro!

Con il gruppo di persone poi che doveva venire con noi, si era convenuto che ci raggiungessero via via che potevano. Uno di essi che doveva venire con noi subito, all’ultimo momento ci fece sapere che doveva partecipare a un matrimonio e non venne affatto. Qualche giorno dopo si presentarono alcuni di loro con parole e gesti che ci sorpresero. Alla maleducazione non avrei fatto caso, ma l’abbandono in toto del gruppo mi ammutolì, chiedendomi perché il Signore avesse permesso questo. In quel momento mi sentivo perfino ingannato da Lui. Mi ritirai in un silenzio pensoso. La ragione più plausibile che intuivo era che senza di loro non saremmo usciti da Vallombrosa. Almeno io! Sorella Lydia invece era più libera. La cosa mi ferì tanto che per un anno andai a dormire in casa di un amico.

          Il progetto da realizzare. Esso prevede la formazione di una piccola comunità monastica maschile e una femminile secondo la Regola di san Benedetto, e un’aggregazione laicale ispirata alla santa Famiglia di Nazareth, da cui ha origine la denominazione “Case di Maria di Nazareth”. Eravamo convinti che anche i laici, come i monaci, devono tornare alle fonti della vita cristiana, e che gli sposi cristiani riscoprissero la dignità della famiglia secondo il disegno di Dio. Perciò noi monaci e le future… monache, ispirati dalla grazia divina, riteniamo di dover favorire il sorgere di Fratelli e Sorelle laici (cf PC 2d) che volentieri sosterremo con la preghiera, la vita virtuosa e l’esposizione della sana dottrina a rivivere lo stile di vita dei primi cristiani, e in particolare i coniugi a rivalutare la comunione di vita, l’educazione cristiana dei figli e il loro inserimento nella società a modo di lievito evangelico.

Poco dopo il nostro insediamento a Tre Confini il 12 luglio 2007, a me e a Sorella Lydia provocò grande commozione la richiesta di una coppia di sposi con bambini, dal profilo cristiano ben marcato – lui aveva perfino studiato all’Ateneo di sant’Anselmo in Roma – di essere aggregati alla nostra opera. Così eravamo tutti rappresentati secondo il progetto: io per i monaci, Sorella Lydia per le monache e Francesco e Daniela per i Laici.

I Fratelli e le Sorelle Laici che il Signore vorrà mandarci, una volta formati, consacrati e predisposti per la vita eremitica, col permesso del vescovo e sotto la guida del parroco, potrebbero essere inviati a riaprire le parrocchie chiuse. Così pure i coniugi, una volta consacrati, possono contribuire a riscoprire la dignità della famiglia secondo il disegno di Dio e assistere le famiglie in crisi. Per la spiritualità essi farebbero riferimento alle comunità monastiche, per i servizi pastorali alla Diocesi. Così potrebbero curare la liturgia, guidare la preghiera dei fedeli, seguire i bambini…  Insomma, nella loro forma di vita essere promotori cristiani di testimonianza e di evangelizzazione.

I monaci e le monache a loro volta, come sentinelle sulla montagna, con la loro accorata e insistente preghiera per tutta la Chiesa, ma soprattutto a favore dei sacerdoti in cura d’anime, sono invitati a imitare l’ardore di Mosè sul monte che intercede per il suo popolo e lo porta alla vittoria (cf Es 17,8-13). Così i pastori, chiamati a svolgere svariate mansioni a servizio del popolo di Dio, soprattutto l’annuncio della Parola, la santificazione mediante i sacramenti e la guida pastorale, non si sentirebbero soli talvolta o abbandonati nella lotta per affermare il bene e scalzare il male, potendo usufruire anche della fraterna preghiera monastica. Nella Chiesa, infatti, nessuno è solo e autonomo: tutti dobbiamo essere mossi dalla carità e sostenerci vicendevolmente gli uni agli altri, secondo la regola dei carismi. 

Un’altra caratteristica della nostra spiritualità e dello stile di vita è l’abbandono alla santa Provvidenza di Dio. Gesù è stato esplicito in proposito: Cercate, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani (Mt 6,33-34). L’esperienza ci assicura che la Provvidenza di Dio provvede al necessario secondo necessità. Perciò quello che necessita non lo chiediamo alle persone, ma direttamente a Dio. E’ un continuo stupore, pertanto, vedere fratelli e sorelle che si prendono cura di noi. Ma è pur vero che anche noi preghiamo per tutti e indistintamente accogliamo la persone come Gesù insegna. Sorella Lydia con vigore sosteneva i seguenti tre principi a riguardo delle “Case di Maria di Nazareth”: Praticare la fede di Abramo, la preghiera di Mosè, la Regola di san Benedetto.

La Vita Eremitica. Essa è uno stato di vita particolare nella Chiesa. La Bibbia l’ha sempre richiesta e praticata. I profeti ne erano maestri e Gesù l’ha vissuta trent’anni nella Casa di Nazareth e l’ha praticata saltuariamente anche durante i tre anni di ministero. Essa è una necessità. Non si può conoscere Dio per esperienza senza l’intimità con Lui. Tutti i santi hanno dovuto praticarla almeno temporaneamente per diventare amici di Dio. Essa poggia su quattro basi solide: il silenzio, la solitudine, la clausura, la stabilità: il silenzio per ascoltare la misteriosa voce di Dio; la solitudine per concentrarsi in se stessi e difendere i sensi e l’interiorità da distrazioni e invadenze varie; la clausura per educarsi parlare quasi solo con Dio; la stabilità di luogo e di cuore per non venir meno alla perseveranza (Cf CCC 162; 2016). Questa severa disciplina però non è da attribuire alla nostra bravura. E’ dono di Dio, come è dono di Dio la chiamata alla Vita Eremitica e la grazia che la sostiene tramite la Parola di Dio, i sacramenti, la preghiera insistente e fervorosa. L’umiltà e la serenità d’animo dell’eremita ne determinano l’autenticità.

E’ bene domandarci pure che cosa pensa la Chiesa della Vita Eremitica. Ecco: “Senza professare sempre pubblicamente i tre consigli evangelici, gli eremiti, in una più rigorosa separazione dal mondo, nel silenzio della solitudine e nell’assidua preghiera e nella penitenza, dedicano la propria vita alla lode di Dio e alla salvezza del mondo” (Catech. Chiesa Catt. 920).

La Chiesa sempre bisognosa di rinnovamento e di purificazione. Oltre che tornare alle fonti, il Concilio ha un’altra affermazione straordinaria: “Ecclesia semper reformanda”. La Chiesa ha bisogno di continue riforme. L’umana natura, nella sua fragilità, si rivela incostante e pigra. Nella vita dei Santi e nelle loro istituzioni è possibile constatare talvolta un calo di tensione religiosa già nella seconda generazione dalla fondazione. Che cosa viene a mancare? Direi il fervore. Nella vita dei grandi Santi, poiché l’azione dello Spirito in essi è quasi … palpabile, il fervore è alle stelle! Pensiamo a san Benedetto, san Francesco, santa Caterina da Siena… Sarebbero tanti i nomi da citare, grazie a Dio! Nella seconda generazione avviene un primo calo di tensione religiosa. Ci si “normalizza”, sostenendo magari che non si deve fare violenza alla natura. Secondo me, però, non è corretto pensare così. Proviamo a chiarire la cosa. E’ vero che non tutti possono essere Benedetto, Francesco o Caterina. Ma non è meno vero che coloro che sono chiamati ad entrare in un determinato Istituto, sono persone che con la professione religiosa ricevono la grazia di stato corrispondente al carisma del Fondatore o della Fondatrice. In questo caso la natura è come riparata o restaurata, pur conservando il fomite, ossia l’attrattiva al male. Il detto teologico: “Gratia supponit naturam” , la grazia non vive sospesa, ma poggia sulla natura, dice pure che la natura è sublimata dalla Grazia. Se noi riusciamo a perdonare è perché la Grazia ce ne dà l’evidenza e la forza di farlo. Con la Grazia il perdono si dà con naturalezza e non per forza. Quindi va raccomandato il fervore, se non altro, per non rendersi ingiusti davanti  a Dio, il quale potrebbe dire: “Perché non amate, non pregate, non agite… secondo la grazia che io vi ho dato, cioè con fervore? Il fervore è una tensione, un’urgenza, una necessità a causa della grazia, della gratuità di Dio!  Certo, c’è fervore e fervore. Benedetti Michelangeli era un pianista di fama. Nella sua arte usava il fervore, la perfezione. Un cristiano, un sacerdote, un consacrato se non si impregna di fervore, che impressione dà? Noi cristiani abbiamo a che fare con Dio. E non è uno scherzo! Non dice Lui che vuole essere amato sopra ogni cosa? Fervore, dunque, in tutto il nostro essere e agire!

Quando venni a Tre Confini non mi rendevo conto di questo. L’ho scoperto nel tempo. Molto mi ha insegnato Sorella Lydia. Ho riportato sopra la sua frase sulla fede, la preghiera e la Regola Benedettina. Ma Lei ogni tanto ne inventava una nuova. Ad esempio, parlando della mortificazione dei sensi o delle passioni dello spirito umano, forse riferendosi al principio: chi vuol partecipare alla risurrezione di Cristo deve prima partecipare alla sua passione – lei se ne usciva fuori dicendo che chi soffre, deve tanto gioire da far sorridere i crocifissi! Dunque, riportiamo nella vita, nella preghiera, nel nostro spirito il fervore, semplicemente perché? Perché la Grazia data da Cristo ai cristiani mediante la fede, i sacramenti, la parola di Dio, l’amore fraterno, la preghiera… hanno risollevato la nostra natura corrotta. Perciò nel regime di grazia e di peccato in cui viviamo, la natura corrotta è riabilitata dalla Grazia di Cristo.

          Per concludere: a Tre Confini, nelle “Case di Maria di Nazareth”, se non ci sono fervore ed entusiasmo, non c’è Amore!

Dom Giustino Rossi, eremita Benedettino